Esplorando le possibilità di un buffet palestinese: tabbouleh, foul, pita e tè alla menta


 

Pop Palestine Cuisine. Viaggio nella cucina popolare palestinese, edito da Stampa Alternativa e illustrato dalle splendide foto di Alessandra Cinquemani, è stato una delle mie letture preferite del 2016.

L’ho sfogliato decine di volte, ho letto e riletto le descrizioni dei piatti, valutato le mie possibilità di riproporli con successo, cercato di capire se potevo procurarmi tutti gli ingredienti. Ma, intanto, rileggevo anche la storia. Perché Pop Palestine non è un banale libro di ricette che può fare bella figura nella biblioteca di una foodblogger, ma, come suggerisce il titolo, è un viaggio. Viaggio che Alessandra, Armando, Fidaa, Silvia e Stefano hanno fatto attraverso la Palestina di oggi, con occhi bene aperti e disponibilità all’incontro.

E nel libro ci sono anche Abed con i suoi dolcetti e un viso pieno di fiducia; Aziza, pratica madre di famiglia orgogliosa di aver mandato per il mondo figli in gamba; Nawàl, donna giovane e bella che coltiva bambini ed erbe aromatiche. Ci sono Zarife e Aida che non sanno solo (si fa per dire) cucinare, ma portano avanti l’importantissima tradizione del ricamo. E poi c’è Joseph, cuoco professionista e appassionato, oltre che discreto corista; c’è Mohammed che frigge falafel fin da bambino e ci sono gli artigiani del pane, dei dolci, del formaggio e persino della birra. E poi c’è Majd, esperta di cucina di mare.

Da tutti loro e dalle esperte mani di Fidaa viene il cibo tradizionale palestinese, interpretato secondo precetti religiosi, usanze di famiglia e qualche concessione alla creatività. Una cucina che, da sempre, deve fare i conti con un territorio naturalmente difficile e non proprio generoso, ma che da troppo, troppo tempo deve tener conto di difficoltà che di “naturale” non hanno nulla.

L’occasione per realizzare – finalmente! – alcune ricette di questo libro è stata l’invito all’Orata Spensierata a provare a realizzare un piatto palestinese, fotografarlo e diffondere la fotografia sui social, invito arrivato direttamente dallo staff di Pop Palestine Cuisine.

Ho deciso quindi che non avrei inventato nulla, ma avrei seguito passo passo una ricetta del libro. Poi mi sono resa conto che non sapevo scegliere e quindi ho deciso per due ricette semplici, in bilico tra la fine dell’inverno (le fave secche) e l’inizio dell’estate (i cetrioli, che qui sono già disponibili) e ho allestito un piccolo buffet con tabbouleh e foul; ci ho aggiunto il pane, che non può mancare, e il tè alla menta.



Ecco come ho fatto per sfamare 4 persone:

Tabbouleh
(ricetta a pagina 63 del libro)

Ho versato 100 g di burgul fine (grano spezzato) in una ciotola e l’ho ricoperto con acqua, poi l’ho lasciato riposare per una quarantina di minuti. Ho ridotto 1 cetriolo, 1 cipolla media bionda e 2 manciate di pomodorini ben maturi in una dadolata molto fine. Ho tritato un bel mazzetto di prezzemolo dal mio terrazzo (ne sono molto orgogliosa!) con la mezzaluna, ma senza insistere troppo. 



Ho aggiungo al trito qualche foglia di menta  – sempre proveniente dal mio terrazzo – e poi ho riunito tutto in una insalatiera. Ho ripreso il bulgur, l’ho strizzato bene con le mani e ho aggiunto anche quello. Ho condito il tutto con un’emulsione di succo di 1 limone, 2 cucchiai di olio di oliva extravergine e un pizzico di sale. Ho mescolato bene e ho lasciato riposare coperto fino al momento del servizio.


Foul
(ricetta a pagina 229 del libro)

Ho messo in ammollo la sera prima 200 g di fave secche – fave sarde e buonissime – che ho poi scolato e messo a cuocere in acqua, senza aggiungere nulla, fino a che non sono state ben tenere. A quel punto le ho scolate conservando un po’ del liquido di cottura. Le ho schiacciate con la forchetta riducendole in una poltiglia che ho raccolto in un piatto. Io ho utilizzato fave con la buccia e non l’ho eliminata dopo la cottura, ma, se la buccia vi dà fastidio potete acquistare fave secche già sbucciate. Ho riunito nel mio bel mortaio di marmo 1 peperoncino secco, ½ cipolla bionda affettata, 1 grosso spicchio d’aglio, 1 pizzico di sale e ho cominciato a “pestellare”. 



Man mano ho aggiunto 5 cucchiai di olio extravergine di oliva e ho continuato a lavorare fino a che non ho avuto una crema ben omogenea. Ho aggiunto un po’ di acqua di cottura, ho versato sulle fave schiacciate e ho amalgamato bene il tutto. Ho completato il piatto con una spolverata di prezzemolo tritato e qualche foglia di menta.

Pita
(ricetta – con variante – a pagina 123 del libro)

Per il pane ho profuso tutto il mio impegno, perché, malgrado io mi affanni in cucina da qualcosa come trent’anni, non avevo mai fatto il pane in casa. Beh, non è stato difficile e, visti i buoni risultati, adesso lo rifarò spesso. Qui ho introdotto una piccola variante alla ricetta originale, utilizzando della semola di grano duro coltivato in Sardegna invece della farina di grano tenero prescritta. Immagino che non sia proprio la stessa cosa, ma... spero che i puristi mi perdoneranno. Ho sciolto 10 grammi di lievito di birra in pochissima acqua tiepida con un cucchiaino di miele di cardo. In una ciotola ho versato 2 tazze di semola (circa 500 grammi), una presa di sale e una di zucchero, 1 cucchiaio di olio extravergine di oliva, 1 tazza di acqua tiepida. Ho aggiunto il lievito e ho lavorato gli ingredienti con le mani fino a che la massa ha smesso di essere appiccicosa. Ho formato una palla, l’ho coperta con uno strofinaccio e l’ho lasciata lievitare al caldo nella veranda per oltre un’ora. L’ho ripresa, l’ho sgonfiata rompendone la superficie, l’ho rimpastata. 



L’ho divisa in 15 parti con le quali ho formato delle palline, che poi ho steso sulla spianatoia di legno leggermente cosparsa di semola. Per la cottura ho adottato il metodo “in padella” anziché cuocere il pane in forno. Ho riscaldato una piccola e pratica padella di pietra e ho fatto cuocere ogni pane sul fondo per circa 3, 4 minuti per lato. I piccoli pani si sono gonfiati e poi sgonfiati, ma hanno mantenuto la morbidezza voluta e... un ottimo sapore.

Tè alla menta
(ricetta a pagina 68 del libro)

La menta del mio terrazzo è molto profumata: ne coltivo tre diverse varietà, ma la mia preferita è quella selvatica proveniente dalle sponde del lago di Gusana (Gavoi – Nuoro) che si è perfettamente ambientata e ha colonizzato due grossi vasi.



Ne ho raccolto un mazzetto e l’ho messa in infusione con 2 cucchiai di tè nero in foglie e molto zucchero di canna. Ho filtrato il liquido e l’ho versato in bicchierini di vetro, mantenendo il resto in caldo nella teiera.

Ecco dunque il mio contributo a questa iniziativa di Pop Palestine Cuisine. Di certo, ora che ho rotto il ghiaccio, proporrò presto altre ricette. Mi sono resa conto che, una volta procurati quegli ingredienti – principalmente spezie – non proprio usuali qui da noi, posso affrontare la preparazione di altri piatti molto interessanti. 



Un formaggio non comune, dal sapore deciso ma disponibile agli abbinamenti: la fresa



Più o meno nella fascia centrale della Sardegna, tra la provincia di Nuoro e quella di Oristano, si trovano le regioni storiche di Marghine, Planargia e Montiferru, Barigadu e Guilcer. Qui ci sono colline, un clima ottimo, poche precipitazioni ma giusta umidità e pascoli adatti sia alle pecore sia alle vacche.

È dal latte delle belle vacchette Bruno-Sarde e Sardo-Modicane allevate all’aperto prevalentemente in queste zone che si ricava la fresa. La fresa è uno dei pochissimi formaggi sardi vaccini adatto a essere consumato fresco, o con un breve periodo di stagionatura. In alcuni testi lo si paragona a uno stracchino per via della crosta sottile e della pasta molle.



Il latte deve essere lavorato intero e crudo; la coagulazione si ottiene sia con caglio liquido di vitello, sia con caglio in pasta di capretto. La cagliata si recupera per mezzo di teli e poi si lascia – solo temporaneamente – scolare in uno stampo.

Poco dopo il formaggio si toglie dallo stampo e si fa scivolare in teli, che vengono legati tipo fagotto utilizzando i quattro angoli. Si ottiene così una forma quadrata di più o meno di una ventina di centimetri di lato, spessa circa 5 centimetri, dagli spigoli arrotondati e sulla quale rimane evidente la trama del tessuto.

La consistenza è morbida e cremosa, il sapore... beh, il sapore va provato. Anche se la fresa si consuma “giovane” il sapore è intensissimo, leggermente acidulo, ma più che altro avvolgente e cremoso.

La produzione è generalmente casalinga e, di conseguenza, non è facile trovarla nemmeno nel banco dei formaggi dei migliori negozi di alimentari. Più facile è procurarsela mettendo in moto meccanismi di conoscenza e amicizia che sono il vero collante e motore delle comunità sarde. Anche per questo la fresa è davvero un formaggio che “parla sardo” e che è vera espressione del territorio.

Ho la fortuna di avere questi... agganci e quindi di assaggiare almeno una volta l’anno uno di questi stupefacenti formaggi. Anche se tradizione vuole che lo si prepari in autunno, quando il latte delle vacche è più denso dopo aver svezzato i vitelli (tanto che è noto anche come fresa de attunzu = di autunno), viene prodotto anche in primavera e non è meno buono. 



Quello che vedete in foto sta dando il meglio di sé in questi giorni, fettina dopo fettina, abbinato a verdure croccanti come le carote crude tagliate a bastoncino, ma anche sporcato con un po’ di miele di corbezzolo o di abbamele, oppure puro e semplice, su un bel pezzo di pane pistoccu integrale. Oppure in un ardito matrimonio con le migliori fragole della stagione.  




Pasta doppio verde e doppia ricotta



Non servirebbe nemmeno compilare una ricetta, perché, in effetti, quello che serve per questo primo piatto è principalmente la primavera. Un tripudio di verde e di bianco, che sono i colori principali del risveglio dei campi in questa stagione. 

Qui ci sono il verde dei primi piselli e degli asparagi e il bianco della ricotta. Doppia. La ricotta cioè è sia fresca, sia mustia (ovvero conservata e affumicata) e rigorosamente di pecora. E più se ne mette meglio è, perché il sapore è semplicemente sublime. Per aggiungere verde al verde c’è anche una spolverata di pistacchi di Bronte. 

Non serve altro e l’esecuzione è assolutamente semplice.



Per due persone:

140 g di orecchiette di grano arso (o altra pasta corta)
1 tazza di piselli freschi sgusciati
6 asparagi coltivati piuttosto sottili
2 scalogni
ricotta fresca di pecora
ricotta mustia
3 cucchiai di olio extravergine di oliva
1 noce di burro
1 cucchiaio di pistacchi di Bronte
sale

Passare i pistacchi al mixer e tenerli da parte.

Mondare e affettare sottilmente lo scalogno e gli asparagi mantenendo intatte le punte.

Far scaldare in padella 2 cucchiai di olio e una noce di burro, unire lo scalogno e lasciarlo appassire a fuoco lento.

Aggiungere i piselli e gli asparagi e lasciar stufare a padella chiusa aggiungendo poca acqua solo se serve.

Preparare la pasta cuocendola in abbondante acqua salata.

Mescolare bene le due ricotte in una ciotola lavorandole con una forchetta e aggiungendo 1 cucchiaio d’olio.

Appena pronta, versare la pasta nella padella delle verdure, allontanare dal fuoco, aggiungere la ricotta e un mestolino di acqua di cottura e mescolare bene.



Sistemare sul piatto di portata o su singoli piatti e completare con una spolverata di pistacchi tritati. 



Dalla bruschetta alla torta di pane, pomodori, carciofi e formaggio



Sono partita dall’idea di mettere in tavola due bruschette veloci, perché avevo del pane buono e dei pomodori locali sorprendentemente già ottimi malgrado la stagione. Poi ho pensato che potevo aggiungerci anche due carciofi, così per gradire. Poi mi sono resa conto che i carciofi sarebbero stati perfetti abbinati a due fette di un ottimo pecorino fresco che mi ha regalato un amico. Per non rinunciare a nulla ho messo tutto a strati in una tortiera.



Per 4 persone:

8 fette di pane “buono davvero”, come il civraxiu, o crivalzu, di Paulilatino (Oristano)
3 Carciofi spinosi di Sardegna Dop
2 manciate di pomodorini maturi tipo ciliegino
4 fette di pecorino fresco
1 spicchio d’aglio
olio extravergine di oliva
aceto di mele
sale

Rivestire una tortiera per crostate con carta da forno. Affettare il pane. Mondare i carciofi e affettarli sottilmente (gambo compreso) immergendoli via via in acqua con un cucchiaio di aceto di mele. Mondare i pomodori, ridurli in dadolata. Grattugiare lo spicchio d’aglio. Affettare il formaggio, privarlo della crosta, quindi ridurlo in piccoli pezzi.

Accendere il forno e portarlo a 200°

In una padella piuttosto fonda, o in un wok, scaldare tre cucchiai d’olio con l’aglio. Aggiungere i carciofi sciacquati e asciugati. Farli cuocere mescolando molto spesso (quasi continuamente) senza aggiungere acqua.

Emulsionare in un piatto fondo un paio di cucchiai di olio, un po’ di acqua e un pizzico di sale.

Sistemare le fette pane sul fondo della tortiera cercando di non lasciare spazi, quindi spennellarle con l’emulsione.

Distribuire i pomodori sul pane.

Quando i carciofi saranno cotti “al dente”, distribuirli in modo uniforme sopra i pomodori. Completare con il formaggio.



Infornare e cuocere giusto il tempo perché il formaggio si fonda e formi una crosticina delicata. Portare in tavola direttamente la tortiera e affettare al momento di servire.