Pane, formaggio e un po’ di frutta? Sì, pare semplice...



È il momento dell’anno in cui ogni giorno pare una stagione diversa. Non fa più molto freddo, ma il vento può soffiare ancora gelido e la pioggia può arrivare a tradimento. L’abbigliamento dev’essere rigorosamente a strati, un cappellino di emergenza piegato in tasca, gli occhiali da sole a portata di mano. Insomma il classico inizio della primavera sarda. Piena di pecore (più bianche del solito) con gli agnelli, di ciuffi di foglie di asfodelo, di acetosella gialla, di calendula e di margherite; di pernici grassottelle che attraversano goffamente la strada e di arance e limoni. Sì, febbraio: il momento di gloria delle arance di Milis e degli alberi di limone di tutta l’isola. L’altro giorno ci siamo ritagliati una giornata rilassante e siamo partiti in cerca di bottino.

Prima tappa: Milis e l’aranceto del signor Emilio, che accoglie sempre tutti con il più cordiale dei sorrisi, la battuta pronta e un bicchierino di Vernaccia. Nel suo fondo gli aranci, i limoni e i mandarini si alternano in un tripudio di colori sgargianti: le foglie sono verde cupo, i frutti turgidi e profumatissimi. 







Seconda tappa il forno del pane di Paulilatino. Da poche settimane il forno ha cambiato gestione, ma il giovane nuovo proprietario ha appreso le tecniche dal pane civraxiu (qui la scheda della Regione Sardegna) e del pane pistoccu molto bene e la qualità è rimasta immutata. Semola di grano duro sardo, lievito madre, acqua e un po’ di sale. Non serve altro, se non la perizia del panettiere. Un profumo fantastico per un pane che dura una settimana quello morbido e anche un mese quello biscottato. Ovvio che in casa mia non durerà mai un mese: lo mangiamo anche a colazione, così com’è, nel latte caldo. Una meraviglia!






Terza e ultima (ma buona ultima) la tappa ad Abbasanta, da dove provengono questi monumentali formaggi. Si tratta di casizolu in due varianti: quella più scura di latte di vacca, quella più chiara di pecora. Rigorosamente prodotti “in casa”, profumatissimi e con un sapore indescrivibile. Se volete avere qualche informazione in più su questo formaggio date un’occhiata qui.


Dopo la spesa, cosa si fa? Si mangia, ovviamente. E, essendo ad Abbasanta, dove se non dal bravissimo Roberto Serra, nel suo piccolo Su Carduleu



Una libera interpretazione del pan brioche

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Non sono molto abile con i lievitati. Non faccio il pane in casa e raramente mi sono cimentata in pizze, krapfen o simili. Da un po’ però avevo voglia di una versione personalizzata del pan brioche. Qualcosa che  potesse andar bene al mattino per la prima colazione o a merenda con il tè. La mattina non amo le cose molto dolci; il mio ideale sono i biscotti del Lagaccio, ma mi faccio andar bene anche le cialde di riso. Però se c’è qualcosa di fatto in casa è meglio. Ecco allora che ho scartabellato qui e là e ho messo insieme questa ricetta: semplicissima,  richiede pochissima abilità, ma ha un tocco in più dato dai semi di papavero e dalla frutta secca.



150 g di farina 0
150 g di farina di grano korashan (commercialmente Kamut)
110 g di latte
30 g di burro salato
30 gr di granella di frutta secca mista*
20 g di zucchero di canna grezzo
20 gr di semi di papavero
10 g di lievito di birra fresco
1 tuorlo
1 pizzico di sale

Setacciare insieme le due farine.
Scaldare leggermente il latte e sciogliervi accuratamente lo zucchero e il lievito sbriciolato. Lasciar ammorbidire il burro.

In una ciotola unire le farine, il pizzico di sale, il burro, il tuorlo e il latte con lievito e zucchero, quindi i semi di papavero e la granella di frutta secca. 

Lavorare da subito con le mani e formare una palla di impasto elastica e compatta. Sistemarla sul fondo della ciotola, coprirla con un panno e lasciarla riposare per circa mezz’ora in un luogo tiepido. Io l’ho appoggiata sul davanzale, perché in questi giorni fa quasi più caldo fuori che in casa!

Foderare uno stampo da plumcake con cartaforno leggermente imburrata.

Riprendere la pasta, rilavorarla per alcuni minuti, quindi formare un filoncino e adagiarlo nello stampo. Coprire con il medesimo panno usato in precedenza, ma leggermente umido e lasciar riposare ancora una mezz’ora. A quel punto ho lasciato l’impasto vicino ai fornelli, visto che avevo già cominciato a preparare il pranzo.

Nel frattempo scaldare il forno, quindi inserire l’impasto a media altezza e lasciarlo cuocere per 30 minuti a 190°. 

Durante questo periodo controllare il pan brioche, ma non aprire mai lo sportello.

Terminato il tempo di cottura spegnere il forno, aprire il meno possibile lo sportello, estrarre il pane dallo stampo aiutandosi con i lembi della cartaforno e rimetterlo in forno, appoggiandolo direttamente sulla griglia. Chiudere lo sportello e lasciarlo riposare per 10 minuti.

Estrarlo e farlo raffreddare completamente.



*Io ho utilizzato alcune mandorle, due o tre nocciole e altrettante noci che vagavano da un bel po’ nel cestino della frutta e che avevo acquistato in una delle numerose gite autunnali nella zona del nuorese.

Origliettas e le altre: esperienza nelle dita, pazienza e miele



Questi dolci che vi mostro oggi sono usciti dalle abili mani della mia amica Graziella (con aiuto e supporto di marito e figlia, ci tiene a precisare). Sono dolci splendidi, delicatissimi, dorati sia per la presenza di uova nella pasta, sia per la frittura, sia per il miele che li ricopre. Una goccia di sole nel piatto!

Questi dolcetti tipici del Carnevale - ma che un tempo si facevano anche in occasioni di cerimonie, in particolare i battesimi - sono una tradizione sarda diffusa più o meno in ogni angolo dell’isola. Di zona in zona assumono diversi nomi e presentano alcune varianti negli ingredienti, anche se non nel procedimento.

Tra Alà dei Sardi, Bitti e Pattada si chiamano, appunto, origliettas; a Nuoro sono orillettas, ma a Benetutti son già orulettas. In Gallura diventano uriglietti; a Ovodda cambiano un po’ e diventano lorighettas. A Orune possono sembrare tutt’altra cosa, perché le chiamano montecadas; a Bolotana montegadas. A Nule, infine, sono le ritzas.



Si tratta comunque sempre di una lunga e stretta striscia di sottilissima pasta che viene tagliata con una rotella dentata in ottone e variamente modellata (a fisarmonica, a ruota...), quindi fritta e poi immersa nel miele aromatizzato.

La base dell’impasto è, tradizionalmente, la semola di grano duro, che oggi viene a volte sostituita con farina bianca, cui si aggiungono molte uova: anche 10 per un chilo. Qui iniziano le varianti: in alcuni casi si aggiunge strutto, in altri acqua; in altri acqua e strutto. In certe famiglie poi si usa mettere un po’ di scorza d’arancia nell’impasto, in altre un po’ di liquore di anice.



Le origliette (italianizzo il nome per comodità) di Graziella, che vedete nelle foto, sono solo di semola rimacinata di grano duro e uova. È quindi facile immaginare che ottenere una sfoglia perfetta, liscissima, sottilissima, ma elastica e resistente non sia proprio facile. Ci vuole molta pratica e molta pazienza, bisogna sentire l’impasto sotto le dita e capire qual è il momento giusto per tagliare e modellare le forme desiderate.

La frittura avveniva un tempo nello strutto e solo raramente nell’olio; a volte si usava addirittura quello che si chiama ozu caso, ovvero il grasso ricavato dalla fusione del formaggio. Oggi si usa praticamente sempre l’olio extravergine di oliva nel quale i dolcetti devono essere sì completamente immersi, ma brevemente; devono infatti rimanere chiari. Poi devono essere appoggiati su carta “da pane” – oggi sostituita da più moderne carte assorbenti - in modo da assorbire tutto l’olio in eccesso.

L’ultimo passaggio è quello nel miele, che va scaldato con gli aromi preferiti e diluito con un po’ di acqua: si può usare la scorza di agrumi (limone o arancia), si possono unire dei liquori aromatici o un po’ di succo d’arancia filtrato. Il miele dev’essere...  buono, un miele sardo profumato di macchia mediterranea o di bosco (i dolci nelle foto sono stati immersi in miele di castagno, che è il “miele di casa” di Graziella) e deve ricoprire interamente i dolci. Poiché nella pasta non c’è alcun dolcificante, il risultato al palato non è assolutamente stucchevole. Anzi, con il miele di castagno, l’equilibrio tra il sapore delicato della pasta e quello avvolgente del miele è perfetto.  

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Torno per un attimo al nome. Secondo questa citazione dal Dizionario Etimologico Sardo di Max Leopold Wagner, che recita:
«... oril’èttas è, in effetti, il cat(alano) orelleta: ‘copa circular molt prima feta de pasta de farina amb ous, cuita amb oli i molt ensucrada’»
pare di capire che questi dolcetti avessero – e abbiano -  dei parenti stretti in Spagna. Chissà chi avrà preso da chi...
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Limone, zafferano e curcuma: voglio degli spaghetti gialli!



Piove e fa freddo. Bella scoperta: è l’inizio di febbraio! Il fatto è che il freddo arriva ora, quando ormai le giornate si sono allungate, dopo alcune settimane in cui pareva già scoppiata la primavera. I mandorli fioriti, l’acetosella gialla sotto gli ulivi, quelle furbette delle cince a rovistare sul terrazzino... Insomma, una bella fregatura! 
E io, come sempre in questo periodo dell’anno, comincio a essere inquieta e ad avere bisogno di sole; evidentemente le scorte dell’estate passata si sono esaurite. Allora ieri a pranzo ho cercato di attirare un po’ di sole in cucina cucinando un primo piatto semplicissimo, ma che fosse giallo, giallo, giallo.


Per due persone
150 g di spaghetti (io ho usato quella di un pastificio sardo)
150 g circa di ricotta di pecora
bottarga di muggine a piacere
1 limone non trattato – succo e scorza -
1 bustina di zafferano in polvere
1 cucchiaino da caffè di curcuma in polvere
olio
sale, pepe bianco

Sciogliere lo zafferano e la curcuma in 1 cucchiaio da minestra di succo di limone, quindi unire un cucchiaio di acqua tiepida e mescolare bene.

Setacciare la ricotta. In una ciotola – dove poi si condiranno gli spaghetti - unire la ricotta, l’emulsione di zafferano e curcuma, pochissimo sale, pepe bianco e 2 cucchiai di acqua di cottura della pasta, che nel frattempo avrete messo a bollire. 

Aggiungere in quantità a piacere la bottarga di muggine appena grattugiata* - che contribuirà a sua volta a colorare il piatto - e due cucchiai d’olio. Lavorare bene il tutto per ottenere una crema morbida. 

Ricavare le striscioline di scorza di limone con un rigalimoni o un pelapatate. 

Cuocere la pasta, quindi prelevarla dalla pentola e depositarla direttamente nella ciotola con la crema di ricotta, unire un paio di cucchiai di acqua di cottura e mescolare bene.
 
Impiattare, cospargere di scorza di limone, servire.
 
 

Tortine integrali di carciofi patate e ricotta

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Gennaio e febbraio sono il tempo ideale per i carciofi.

Sebbene i primi raccolti si facciano fin da novembre per avviare le primizie ai mercati delle città “continentali”, in realtà la pianta dà il meglio di sé con l’inverno inoltrato. Ora abbiamo carciofi più piccoli magari, ma più dolci; più bruttini di certo, ma anche più sani e saporiti grazie alle piogge.

Crudi, conditi con olio e limone (a proposito, anche i limoni sono ottimi in queste settimane!) e magari bottarga, oppure impastellati e fritti, o come contorno all’agnello, o ancora con le patate: sono sempre buonissimi.

Della bontà della ricotta di pecora ne abbiamo già parlato: anche per questo latticino questo è il momento ideale.

Perché non mettere insieme le due bontà in una forma un po’ insolita e vedere cosa succede?

100 g di semola di grano duro
100 g di semola di grano duro integrale
50 g di strutto
1 tuorlo
acqua tiepida
sale

3 carciofi
3 patate
aglio
sale, pepe
olio
150 g di ricotta di pecora



Preparare la pasta: setacciare insieme le due semole e aggiungere un tuorlo e lo strutto, quindi cominciare a lavorare con la punta delle dita. Aggiungere pian piano tanta acqua tiepida quanto basta per cominciare a formare l’impasto, poi lavorarlo per almeno dieci minuti, fino a che non sia elastico e omogeneo (non sarà “liscio”, perché la semola integrale lo renderà ruvido al tatto). Chiuderlo in pellicola per alimenti e lasciarlo riposare.

Nel frattempo mondare i carciofi e tagliarli (gambi compresi) in piccoli pezzi gettandoli man mano in una ciotola con acqua fredda con l’aggiunta di succo di limone o aceto bianco.

Mondare anche le patate e ridurle a pezzetti piuttosto piccoli.

In una casseruola scaldare dell’olio con uno spicchio d’aglio tritato (o intero, se poi si preferisce toglierlo), quindi unire i carciofi sciacquati e scolati e le patate. Mescolare, bagnare con poca acqua e procedere alla cottura a coperchio chiuso e fuoco dolcissimo. Quando le patate saranno praticamente spappolate e i carciofi tenerissimi (nel caso aggiungere ancora un po’ di acqua durante la cottura) regolare di sale e pepe, spegnere e tenere da parte.

Accendere il forno e portarlo a 180° in modalità ventilato.

In una ciotola setacciare la ricotta e lavorarla con un po’ di olio, sale e pepe, unirvi i carciofi con patate e amalgamare bene.

Riprendere la pasta, stenderla e ricavare sei tondi sufficienti per rivestire degli stampi da crostata monoporzione di 10 cm di diametro, precedentemente unti con un po’ di strutto 8° di burro) e infarinati con la semola non-integrale.

Regolare i bordi e, volendo, ricavare dai ritagli di pasta delle piccole decorazioni da sistemare sulla superficie delle tortine.

Riempire ogni guscio di pasta con parte del composto di ricotta e carciofi livellando bene con una forchetta; applicare le eventuali decorazioni di pasta, quindi infornare direttamente sulla griglia del forno sistemata sul piano centrale. Cuocere per circa 15 minuti.

Estrarre dal forno, lasciar riposare per circa 10 minuti, quindi togliere le tortine dagli stampi ribaltandoli con un movimento rapido e deciso.

Si possono servire sia calde, sia tiepide.